Il Grande Gatsby, incipit.
Traduzione di Tommaso Pincio.
Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare.
«Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».
Non aggiunse altro, ma nel nostro riserbo siamo sempre stati sorprendentemente comunicativi e compresi che voleva sottintendere molto di più. Di conseguenza, sono incline a sospendere ogni giudizio, abitudine che mi ha aperto a un gran numero di persone strane e mi ha inoltre reso vittima di non pochi seccatori consumati. Una mente degenerata è lesta a riconoscere una simile caratteristica e ad attaccarvisi quando si manifesta in una persona normale, e fu così che al college mi ritrovai a torto accusato di essere un intrigante perché ero al corrente delle pene nascoste di uomini sregolati e misteriosi. La gran parte delle confidenze non erano cercate; ho spesso finto d’essere assonnato o assorto in altri pensieri o ho ostentato una frivolezza ostile non appena scorgevo agitarsi all’orizzonte il segno inconfondibile di una rivelazione intima; giacché le rivelazioni intime dei giovani, o perlomeno i termini nei quali i giovani le esprimono, sono di solito contraffatte e alterate da palesi omissioni. La sospensione del giudizio presuppone una speranza infinita. Ancora adesso temo che perderei qualcosa qualora mi dimenticassi che, come mio padre snobisticamente asseriva e io snobisticamente ripeto, il senso della basilare decenza viene distribuito in misura iniqua alla nascita.
E, dopo essermi tanto gloriato per la mia tolleranza, giungo ad ammettere che essa ha un limite. La condotta può reggersi sulla dura roccia o affondare in paludi melmose, ma oltre un certo punto non mi interessa più su cosa si basa. Quando tornai dall’Est, lo scorso autunno, avvertivo il bisogno di un mondo in uniforme e, per così dire, sempre moralmente sull’attenti; non volevo più saperne di debosciate digressioni condite di fuggevoli sbirciate nel cuore umano. Soltanto Gatsby, l’uomo che dà il nome a questo libro, era esente da questa mia reazione. Gatsby, che rappresentava tutto quello per cui nutro un disprezzo spontaneo. Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti ben riusciti, allora c’era qualcosa di fastoso in lui, una forma di acuta sensibilità verso le promesse della vita, quasi fosse imparentato con uno di quei complessi macchinari che registrano un terremoto a diecimila chilometri di distanza. Questa ricettività non ha alcunché da spartire con la molle impressionabilità che si pretende di nobilitare definendola «temperamento creativo»; si trattava di uno straordinario talento per la speranza, una prontezza romantica che non ho mai riscontrato in altre persone e verosimilmente mai più riscontrerò. No, alla fine Gatsby si rivelò una persona a posto; fu quel che lo assillava, fu quel nefando pulviscolo che si trascinava al seguito dei suoi sogni a reprimere per un po’ il mio interesse per le inutili pene degli uomini e le loro effimere esaltazioni.
Da tre generazioni la mia famiglia è tra le più benestanti e in vista di questa città del Midwest. I Carraway sono una sorta di clan e la nostra tradizione ci vuole discendenti dei duchi di Buccleuch, ma il vero fondatore del ramo cui appartengo fu il fratello di mio nonno, che venne qui nel ’51, spedì un sostituto alla Guerra di Secessione e avviò l’impresa di ferramenta all’ingrosso che mio padre porta avanti ancora oggi.
Non ho mai conosciuto questo prozio ma dovrei somigliargli, soprattutto guardando l’orribile crosta appesa nell’ufficio di papà. Mi addottorai a New Haven nel 1915, giusto un quarto di secolo dopo mio padre, e un poco più tardi partecipai a quella procrastinata migrazione teutonica che va sotto il nome di Grande Guerra. Ebbi modo di apprezzare la controffensiva così a fondo che ne ritornai smanioso. Anziché il centro palpitante del mondo, il Midwest mi sembrava ora il bordo sfilacciato dell’universo; per cui decisi di andarmene nell’Est e imparare i rudimenti del mercato azionario. Tutti quelli che conoscevo erano nel mercato azionario, pertanto immaginai che ci fosse spazio per un uomo in più. Zii e zie al completo ne discussero come dovessero scegliere un collegio cui mandarmi e alla fine, con facce serissime e titubanti, dissero: «Mah… sììì». Papà accettò di finanziarmi per un anno e, dopo svariati rinvii, nella primavera del ’22 venni nell’Est in pianta stabile, o così credevo.
La soluzione più pratica sarebbe stata trovare una stanza in città, ma era una stagione calda e io avevo appena lasciato una terra di prati estesi e alberi benevoli, così quando un giovanotto dell’ufficio propose di prendere una casa insieme in un sobborgo residenziale mi parve un’idea fantastica. Trovò lui la casa, una villetta di cartapesta segnata dalle intemperie per ottanta al mese, ma all’ultimo minuto la ditta dispose il suo trasferimento a Washington e io me ne andai in campagna da solo. Avevo un cane, perlomeno lo ebbi per qualche giorno, finché non scappò, e avevo anche una vecchia Dodge e una donna finlandese che mi rifaceva il letto e mi preparava la colazione e borbottava tra sé motti di saggezza finnica davanti al fornello elettrico.
Avevo trascorso un giorno o due in piena solitudine allorché un uomo, giunto dopo di me, un mattino mi fermò per strada. «Come si arriva al villaggio di West Egg?», mi chiese disorientato.
Glielo dissi. E nel riprendere il cammino non mi sentii più solo. Ero una guida, un pioniere, un colono della prima ora. Senza volerlo, costui mi aveva conferito la cittadinanza della zona.
Cocktail: l’Old Fashioned.
L’Old Fashioned è un cocktail pre-dinner a base di bourbon in cui vengono dissolti zucchero, angostura bitter ed essenza di scorza d’arancia. È così chiamato poiché viene servito in bicchieri chiamati appunto old fashioned.
Composizione
4,5 cl di bourbon o rye whiskey
2 gocce di angostura bitter
1 zolletta di zucchero
1 spruzzata di soda
Decorazione: fetta d’arancia e ciliegina
Preparazione
Prendere un bicchiere tipo old fashioned da 6-10 once fluide, porvi una zolletta di zucchero ed impregnarla con gocce di angostura (3-4 dashes, cioè 1,8-2,5 ml). Utilizzare un pestello per schiacciare la zolletta. Aggiungere un goccio di acqua naturale per far sciogliere meglio lo zucchero e mescolare stando attenti a non creare grumi ed ottenere una soluzione omogenea. Aggiungere un’oncia di bourbon e poi 3-4 cubetti di ghiaccio. Utilizzare il cucchiaio da bar per mescolare e dissolvere lo zucchero (ed eventualmente lo sciroppo) nel bourbon. Aggiungere altri cubetti di ghiaccio sino a riempire il bicchiere, quindi un’ulteriore oncia di bourbon. Mescolare di nuovo con il cucchiaio da bar. Ricavare con un pelapatate una lunga fetta di scorza d’arancia sopra il bicchiere così che l’essenza d’arancia si depositi nella soluzione e la profumi. È possibile anche schiacciarla leggermente sopra il bicchiere per ottenere il risultato. Tagliare e pulire la fettina di scorza d’arancia, poi aggiungerla al cocktail. Inserire nel cocktail una ciliegia maraschino e ricavare una fettina d’arancia con cui guarnire il bicchiere. Servire senza cannuccia.
Musica: Elton John – Bennie And The Jets.
Poesia: Egli desidera il tessuto del cielo. Di William Butler Yeats.
Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.
Politica: Discorso inaugurale del Presidente John Fitzgerald Kennedy
And so, my fellow Americans: ask not what your country can do for you–ask what you can do for your country.
My fellow citizens of the world: ask not what America will do for you, but what together we can do for the freedom of man.
Discorso integrale in italiano: clicca qui
Film: Forrest gump.
Speech: Simon Sinek on Millennials.
The Great Gatsby, explicit.
Most of the big shore places were closed now and there were hardly any lights except the shadowy, moving glow of a ferryboat across the Sound. And as the moon rose higher the inessential houses began to melt away until gradually I became aware of the old island here that flowered once for Dutch sailors’ eyes — a fresh, green breast of the new world. Its vanished trees, the trees that had made way for Gatsby’s house, had once pandered in whispers to the last and greatest of all human dreams; for a transitory enchanted moment man must have held his breath in the presence of this continent, compelled into an aesthetic contemplation he neither understood nor desired, face to face for the last time in history with something commensurate to his capacity for wonder.
And as I sat there, brooding on the old unknown world, I thought of Gatsby’s wonder when he first picked out the green light at the end of Daisy’s dock. He had come a long way to this blue lawn and his dream must have seemed so close that he could hardly fail to grasp it. He did not know that it was already behind him, somewhere back in that vast obscurity beyond the city, where the dark fields of the republic rolled on under the night.
Gatsby believed in the green light, the orgastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but that’s no matter — tomorrow we will run faster, stretch out our arms farther… And one fine morning — So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.
Pavia, 13 ottobre 2018.